La prima leggenda di cui narro, legata al mondo femminile e da tempo immemore a queste coste, non poteva che essere quella delle Sirene, che ho voluto ricordare ed omaggiare io stessa, attraverso il logo del blog:
la “Lemon Mermaid ” vuole essere, infatti, una sintesi grafica della Costa Amalfitana/Sorrentina, con la fusione di due suoi simboli: il limone, importato dall’Oriente e divenuto emblema del nostro territorio, coltivato da millenni nei terrazzamenti degradanti verso il mare, si tuffa proprio in questo elemento vitale e imprescindibile, trasformandosi in un altro simbolo di questa terra: un’insolita e meravigliosa Sirena, icona leggendaria proprio di queste acque!
Su queste figure mitologiche si sono da sempre intrecciate tante controverse e variegate versioni che hanno reso il loro “mito ancora più mitico”!
In questo articolo ho cercato di fare un riassunto, il più possibile esaustivo, delle tantissime storie legate alla vita delle Sirene del Golfo di Salerno, per ricordarne certamente le origini ma, sopratutto, perché esse simboleggiano da sempre la natura femminile dell’esistenza umana e raccontano come questa fosse percepita attraverso i secoli.
Descritte e trasformate nei millenni in: fanciulle vergini, ninfe, terribili creature alate o degli abissi, dee da venerare, disperate creature ibride… le sirene hanno storie tragiche e travagliate ma sono sempre ricordate, indelebilmente, come creature affascinanti e misteriose, simbolo assoluto del desiderio destabilizzante delle virtù, della tentazione fatale e del pericolo ingannatore… come gli scogli affioranti nelle acque tempestose!
Dove vivevano le Sirene?
Come ho già anticipato, non c’è dubbio alcuno che le famose sirene descritte da Omero nell’Odissea abitassero nel Golfo di Salerno (nel mare e sugli isolotti che, in lontananza, ho la fortuna di ammirare ogni giorno da casa mia), e precisamente sugli scogli delle Sirenuse (Seirenes, Sirenusse o Sinerussai), un piccolo arcipelago, al largo di Positano, formato da tre isolotti detti anche “Li Galli” (il Gallo Lungo, la Rotonda e Castelluccio).
La più importante delle testimonianze storico-letterarie sulla localizzazione delle isole delle Sirene ci è giunta dal geografo greco Strabone, che visse nel I secolo a. C. e che afferma: (…) a chi supera il promontorio si presentano alcune isolette deserte e rocciose che si chiamano Sirene. (…)
Già dal solo nome delle isolette, non dovrebbero esserci dubbi che fossero il rifugio delle sirene incantatrici. A conferma della fama di essere un luogo molto temuto dai naviganti, ci sono i ritrovamenti, nei loro fondali, di numerosissimi reperti archeologici di navi naufragate su questi scogli.
Il piccolo arcipelago – con un profilo basso, poco visibile e mutevole a seconda da quale punto cardinale lo si osservi, era infatti molto pericoloso per le navi antiche a remi ed a vela, a causa di un particolare gioco di correnti marine che intorno agli isolotti formavano come dei vortici molto insidiosi e dal loro improvviso ergersi dal mare.
I suoi scogli, inoltre, non sono stati oggetto solo dei versi di Omero, ma anche di Virgilio, che nell’Eneide fa riferimento proprio all’avvicinarsi della nave “agli scogli delle Sirene, un tempo rischiosi e biancheggianti per le molte ossa“.
Nonostante tutte queste “prove” a favore di una geo-localizzazione che sembra evidente, sono state comunque elaborate altre teorie.
Una di esse cambia veramente di poco la dimora delle sirene e la loro storia, collocandole sulle alture di Punta Campanella, l’antico Promontorium Minervae che divide il Golfo di Napoli da quello di Salerno, dove si narra che proprio Ulisse fece erigere un tempio in onore di Athena (sono visibili ancora oggi i resti) dopo lo scampato pericolo dalle sirene, le quali, per il dispiacere, si buttarono in mare trasformandosi negli scogli delle Sirenuse.
Del resto, tutta la Penisola sorrentina è detta “Terra delle Sirene”, e gli abitanti di Sorrento affermano che il nome della loro città, secondo un’etimologia popolare, derivi dalla denominazione ‘Sirenide’, forse anticamente data alla zona (…).
Esiste, poi, un racconto popolare che “romanticizza” ancor di più l’origine del nome “Sorrento“, attribuendolo ad una fanciulla di nome Sirentum, figlia di Mirone, un contadino che abitava nella zona collinare di Casarlano e della sirena Leucosia.
Sirentum era di una bellezza disarmante e aveva un carattere dolce ed una grande generosità. Finanche Partenope, la più grande delle tre Sirene, lodò la sua bellezza e le pronosticò un futuro da regina. Qualche tempo dopo, infatti, Sirentum andò in sposa al principe della famiglia nobile dei Durazzo.
Lei e il principe furono felici e viaggiarono molto ma, un brutto giorno del 1558, Sorrento fu invasa dai saraceni che, oltre a razziare la città, rapirono anche la bella Sirentum. Tutta la popolazione si mobilitò per far sì che la loro amata principessa venisse rilasciata e, quando questo avvenne, mossi dalla incontenibile gioia, le dedicarono il nome della loro città.
Un’altra tesi identifica, invece, le alture di Scilla e Cariddi nello stretto di Messina, come luogo dove abitarono queste fantastiche creature.
L’origine delle Sirene
L’origine delle Sirene, come ogni mito greco, è affascinante, con diverse versioni molto fantasiose.
Le Sirene, prima di divenire delle temibili creature, erano delle semplici fanciulle, figlie quasi sicuramente del dio fluviale Acheloo e di madre un po’ più incerta: alcuni la identificano in Mnemosine, altri invece in Melpomene, la musa della tragedia, altri ancora ancora nella musa della danza, Tersicore. C’è anche chi la identifica in Calliope o, ancora, in Sterope, lontana discendente di Zeus.
Altri testi le vogliono generate da alcune gocce di sangue di Acheloo o del suo corno spezzato da Ercole (che poi, ornato di fiori e frutta da una ninfa, divenne la famosa cornucopia, simbolo dell’abbondanza).
Le giovani Sirene erano le compagne di giochi di Persefone, figlia di Demetra (Dea dell’agricoltura, della terra e della civiltà) .
La storia narra che, quando Persefone fu rapita da Ade, Dio degli inferi, la madre inferocita incolpò le giovani fanciulle di non aver fatto nulla per evitare il ratto della figlia, e le maledisse, trasformandole in creature terribili, condannate ad incantare gli uomini ma senza ricevere amore. Un potere irresistibile fin quando anche un solo uomo sarebbe riuscito a resistere al loro incanto e che di conseguenza le avrebbe condannate a morire per la vergogna.
Secondo Ovidio, le sirene chiesero esse stesse agli Dei di essere trasformate in uccelli per poter meglio cercare la perduta amica Persefone in ogni dove: “acilesque Deos habuistis et artus / Vidistis vestros subitis flavescere pennis” (aveste condiscendenti gli Dei, e vedeste le membra vostre biondeggiar di penne).
Un’altra versione, invece, racconta che le Sirene sono trasformate dalle Muse, come pegno di aver perso con loro una gara di canto.
Un’altra storia ancora, le vede punite da Afrodite, che le trasforma sempre per metà donna e metà uccello, per la loro scelta di allontanarsi dai piaceri carnali e le esilia sull’isola di Antemoessa (che significa fiorita), corrispondente probabilmente a Capri.
L’unica cosa certa è che nella mitologia greca le Sirene erano metà donna e metà uccello!
Questa particolare forma “ornitomorfa” è dovuta al fatto che per i greci il canto delle sirene non era un richiamo di matrice erotica, bensì fonte di sapienza e conoscenza. Questo rendeva le Sirene, figure divine, sapienziali e per tale motivo avevano quindi le fattezze di creature del cielo.
Nel corso del loro lungo volo si vuole che esse si siano fermate a Capo Peloro in Sicilia, per poi raggiungere l’isola di Capri e definitamente stanziarsi sugli scogli delle Sirenuse (dette anche “Li Galli” probabilmente perché le sirene avevano appunto sembianze di uccelli). Lo stesso itinerario che fecero più di 3000 anni fa i Teleboi, i primi colonizzatori di Capri, provenienti dall’Acarnania, terra dove scorre il fiume Acheloo…
Sembra che tutto torni!
La Leggenda di Ulisse e delle sirene ammaliatrici
«(…) A guardar giù, al golfo di Salerno, a sud-est, in un giorno turchino, a veder la scura costa del tutto rocciosa, le chiare rocce montane, torna in mente Ulisse, ed è come ricuperare un perduto sé, mediterraneo, anteriore a noi (…)» (David Herbert Lawrence, 1920)
La storia di Ulisse e delle sirene ammaliatrici la conosciamo tutti, essendo uno dei versi dell’Odissea più famoso e raccontato nei suoi millenni di storia. Ma chi erano precisamente queste Sirene?
Omero ne indica solo due, senza nominarle o descriverle, ma la storia ha tramandato che le sirene incantatrici di Ulisse fossero tre sorelle: Parthenope la vergine, Leucosia la bianca e Lige(i)a dalla voce chiara.
Esseri temibili e inquietanti, dal canto ammaliante e traditore, fatale per qualsiasi equipaggio passasse vicino alle loro isole, avevano un volto bellissimo e busto di donna che, dalla vita in giù, diventava di uccello.
Proprio per questo, la maga Circe mise in guardia Ulisse, che avrebbe dovuto attraversare la loro dimora, dicendogli di proteggere lui e i suoi compagni dal loro canto. Così l’arguto Ulisse escogitò un espediente grazie al quale riuscì a sfuggire alle Sirene. Turò le orecchie dei compagni con della cera e si fece legare all’albero maestro della nave, perché Ulisse come noto, aveva un’inestinguibile curiosità di sapere e voleva assolutamente verificare di persona, la forza incontrollabile di questi spaventosi esseri, che irretivano gli uomini fino a portarli alla morte!
Come detto, i marinai non erano attirati dalle sirene per i melodiosi canti, ma perché queste dichiaravano di sapere molte cose… Gli uomini quindi si infrangevano con le navi sugli scogli per la smania del sapere, per l’invito alla conoscenza “onnisciente”!
Ulisse racconta: “Così cantavano modulando la voce bellissima, e allora il mio cuore voleva sentire, e imponevo ai compagni di sciogliermi, coi sopraccigli accennando; ma essi a corpo perduto remavano. E subito alzandosi Perimede ed Euriloco nuovi nodi legavano e ancora più mi stringevano”.
Le parole melodiose delle Sirene:
“Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei,
e ferma la nave, perché di noi due possa udire la voce.
Nessuno è mai passato di qui con la nera nave
senza ascoltare con la nostra bocca il suono di miele,
ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose.“
Ulisse, legato all’albero maestro, non seguì le promesse delle Sirene e la nave proseguì nel suo viaggio…
Le Sirene, invece, profondamente turbate dalla loro sconfitta dinanzi alla sfida vittoriosa di Ulisse, si gettarono in mare, lasciandosi annegare. La loro esistenza aveva perduto ogni significato! (una seconda versione dice che si gettarono in mare, trasformandosi proprio nei tre scogli delle Sirenuse)
Omero non ne parla, ma Apollonio Rodio, vissuto nel III secolo a. C., racconta in “Le Argonautiche” della loro triste fine. Da qui, iniziano altre leggende, altri miti per ognuna delle tre sirene che hanno legato indissolubilmente il loro nome a luoghi e città dove sono state venerate come dee e ricordate fino ai giorni nostri.
Parthenope
Parthenope (o Partenope o Parthenia), “la vergine” o “quella dall’aspetto di fanciulla“, è la sorella maggiore delle Sirene incantatrici descritte nell’Odissea, è divenuta, nella memoria e nei riti, la più famosa delle tre Sirene, perché ha dato il nome alla città di Napoli ed al suo popolo, ancora oggi dopo quattro millenni conosciuto e adoperato nel linguaggio corrente: Napoli, la città partenopea!
La leggenda narra che il suo corpo approdò, portato dalle correnti, sull’isolotto di Megaride, dove fu rinvenuta da alcuni pescatori che, vedendo quel bellissimo volto ormai privo di vita, decisero di seppellirla dove ora sorge Castel dell’Ovo, a protezione della città che si andava costituendo (una versione certamente più recente, racconta che qui, il corpo di Partenope si dissolse, prendendo la forma della città di Napoli: la sua testa è la collina di Capodimonte e la sua coda si posa lungo il promontorio di Posillipo).
Così nacque Palepoli(s), la città più antica, rispetto alla successiva Neapolis (la città nuova).
A rafforzare questa leggenda c’è una delle fontane più importanti e famose di Napoli, la fontana della Spinacorona, anche detta “delle zizze”, fatta costruire nel XVI secolo da Don Pedro de Toledo e che si trova in via Giuseppina Guacci Nobile, nei pressi dell’Università.
E’ la più antica raffigurazione della sirena Parthenope, quindi è rappresentata col corpo metà uccello e metà donna nell’atto di spegnere le fiamme del Vesuvio con l’acqua salvifica che le sgorga dai seni.
Il gruppo scultoreo della fontana è attribuito a Giovanni da Nola eseguito intorno al 1540, mentre le figure della Sirena e del Vesuvio su cui poggia sono molto più antiche e risalirebbero al XII secolo. Attualmente la scultura della Sirena è una copia dell’originale che è conservata nei sotterranei gotici del Museo della Certosa di S. Martino. Un tempo, al di sopra della fontana si leggeva una targa in marmo su cui era incisa la frase “Dum Vesevi Syrena Incendia Mulcet” (mentre la sirena addolcisce l’incendio del Vesuvio).
Una bella curiosità è che Parthenope con i seni zampillanti si trova in un’altra fontana famosa; quella di Piazza Duomo ad Amalfi, ritornando in qualche modo nel luogo di origine, nel suo mare!
Nella fontana, dedicata al Santo protettore della città, sacro e profano si mescolano, in una rappresentazione che mostra in alto l’immagine sacra di Sant’Andrea inchiodato alla croce nell’estremo sacrificio e in basso quella pagana della Sirena, in una sintesi di morte e rigenerazione.
Ritornando a Napoli, si pensa che Parthenope è raffigurata anche nel busto della cosiddetta “Capa ‘e Napule”, che attualmente si trova sullo scalone principale di Palazzo San Giacomo. Si tratta della replica di una parte di una statua di 20 secoli fa che, prima della sistemazione attuale, si trovava nei pressi di Piazza Mercato.
Altri omaggi in onore della bella Sirena si trovano in Piazza Sannazzaro, dove è rappresentata sulla sommità di una fontana e sulla facciata del Teatro San Carlo dove c’è un gruppo scultoreo che si chiama appunto, Partenope.
La leggenda più antica su questa Sirena, ci ricorda che i coloni greci che fondarono la città di Napoli venerarono la sirena Parthenope come una Dea protettrice, dedicandole un Tempio. Inoltre, secoli dopo, gli ateniesi di Napoli, con il navarca Diotimo nel 425 A.C. trovò che gli abitanti celebravano una corsa con le fiaccole durante i riti funebri in onore della Sirena. Egli potenziò tale usanza, istituendo le feste e le corse Lampadiche (Lampadedromie neapolitane), rendendole tra le più importanti del Mediterraneo.
A conferma della loro notorietà, c’è la notizia che l’Imperatore Augusto incluse la corsa con le fiaccole tra le competizioni sportive, degli “Italika Romaia Sebastà Isolympia”, avendo ben presente tale rituale legato ai miti fondativi della Neapolis greca.
Attualmente, i ritrovamenti archeologici avvenuti a Napoli durante i lavori della Metropolitana confermano le antichissime origini della città, con la riscoperta delle sue mitologiche radici “partenopee”.
Queste radici, attraverso i secoli, sono divenute popolari, sedimentandosi e mischiandosi alle credenze più arcaiche di questo popolo; le quali tramandano che la Sirena Partenope sia sepolta alle pendici di Pizzofalcone ed al contempo in una antichissima chiesa del centro storico, S. Agnello a Caponapoli, perché sacro e profano non hanno confini in questa città, dove religiosità e paganesimo si mescolano senza soluzione di continuità.
Dalle divinità greche ai Santi protettori “specializzati”, infatti, il passo è breve!
Nel corso del tempo poi, le sirene sono state soggette ad interpretazioni e riletture…
Nel medioevo, con la diffusione del Cristianesimo, Le sirene perdono le ali in segno di caduta dell’anima e si inizia a raffigurarle con l’aspetto che conosciamo tutti: esseri metà donna e con la coda di pesce.
È interessante notare anche il fatto che esse vengano rappresentate nell’atto di allargare le estremità della coda (come si vede nel bellissimo mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto). Un’evidente allusione sessuale, simboleggiante il peccato della lussuria e l’eccessivo amore per i beni materiali che allontana da Dio.
Da lì in poi, la Sirena come essere femminile, inizia la sua fama di simbolo di seduzione e del potere delle passioni, dell’istinto e del desiderio, non mediati dalla ragione.
Il mito di Partenope e Vesuvio
Nel 1800 si diffuse un’altra variante del mito di Partenope. Si raccontava, infatti, che Partenope fosse una sirena che abitava le coste del golfo di Napoli. Un giorno le si avvicinò un centauro dal nome Vesuvio.
Eros, il Dio dell’amore, non esitò un attimo a fare il suo lavoro, e scagliò il suo dardo facendo innamorare perdutamente Vesuvio e Partenope.
I due giovani erano felicemente innamorati fin quando, il solito Zeus, a sua volta invaghito di Partenope, decise di separare per sempre i due amanti. Così, il potente dio trasformò Vesuvio in un vulcano ai confini del golfo, in modo che la sirena lo potesse sempre vedere, senza poterlo toccare mai più.
Ma siccome Partenope non poteva sopportare l’idea di non avere il suo amato con sé, presa dalla disperazione, si uccise. Le onde trascinarono il suo corpo sulla costa dell’isolotto di Megaride che assunse, al pari della sua bellezza, la forma di una città incantevole.
Il mito di Partenope secondo Matilde Serao
Matilde Serao, scrittrice napoletana degli inizi del ‘900, descriveva invece una versione del mito molto diversa, dove Partenope non era più una Sirena ma una semplice ragazza greca, innamorata dell’eroe ateniese Cimone.
Purtroppo per i due giovani, il padre della giovine l’aveva promessa in sposa ad un altro uomo. Per questo motivo, i due innamorati scapparono dalla Grecia ed approdarono proprio nel golfo di Napoli. In questo modo, Partenope e Cimone poterono vivere il loro amore senza problemi.
In seguito, i due ragazzi vennero raggiunti dalle loro famiglie, dando inizio al popolamento della città. Partenope diede alla luce 12 figli, diventando la madre del popolo napoletano a cui tutti si rivolgono. Inoltre, secondo Matilde Serao, Partenope non è mai morta, ma continua a vivere per restare accanto al suo popolo.
Ecco quello che scrive a tal proposito la scrittrice, in “Leggende napoletane” (del 1835):
La tomba della Sirena Partenope
O Sole che passi nel segno del mese di gennaio, generatore di tutti i beni, proteggi felicemente Partenope
Se interrogate uno storico, o buoni ed amabili lettori, vi risponderà che la tomba della bella Parthenope è sull’altura di San Giovanni Maggiore, dove allora il mare lambiva il piede della montagnola (…) Ebbene, io vi dico che non è vero. Parthenope non ha tomba, Parthenope non è morta. Ella vive, splendida, giovane e bella, da cinquemila anni.(…) E’ lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori (…) Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non ha tomba, è immortale, è l’amore.
Napoli è la città dell’Amore.
Partenope e la Pastiera di grano
Come per ogni figura e donna citata in questo blog, dedico anche alla sirena Parthenope un piatto, legato un qualche modo al suo essere.
Per lei è stato veramente facile, perché c’è una leggenda che lega l’origine di uno dei dolci più iconici della Campania e di Napoli in particolare, proprio a questa mitica Sirena: La Pastiera di grano!
Questa leggenda narra che Parthenope fu così affascinata dalla bellezza del Golfo di Napoli che decise di stabilirvi la sua dimora. Con l’arrivo della primavera onorava le genti del luogo con il suono del suo canto; questi per ringraziarla le fecero 7 doni portati da 7 fra le più belle fanciulle dei villaggio: la farina (simbolo di forza e ricchezza della campagna), la ricotta (omaggio di pastori e pecore), le uova (simbolo della vita che si rinnova), il grano bollito nel latte (che rappresenta i due regni della natura: quello vegetale ed animale), l’acqua di fiori d’arancio, per renderle omaggio con i profumi della terra campana; le spezie, in rappresentanza dei popoli più lontani del mondo ed infine il miele per esprimere l’ineffabile dolcezza profusa dal suo canto.
La sirena, felice per tanti doni, si inabissò per fare ritorno alla sua dimora cristallina e depose le offerte preziose ai piedi degli dei. Questi, inebriati anche essi dal soavissimo canto, riunirono e mescolarono con arti divine tutti gli ingredienti, trasformandoli nella prima Pastiera che superava in dolcezza il canto della stessa sirena.
A questo punto vi sono due versioni diverse sulla nascita del dolce: una dice che fu proprio per mano di Partenope che, mescolando questi 7 ingredienti, creò la pastiera, dall’altra parte il merito della creazione viene attribuito agli dei.
Una cosa è certa, le origini della pastiera sono antichissime e quasi sicuramente, come altri dolci della tradizione del territorio, affonda le proprie radici nelle usanze e nei riti ellenici. Si ipotizza, infatti, che una versione primordiale venisse preparata per accompagnare le feste pagane che celebravano il ritorno della primavera e/o che facesse parte di quel ricco ventaglio di offerte votive portate in processione dalle sacerdotesse pagane per il culto di Demetra, dea del grano e della fertilità della Terra, e nume patrio della Neapolis greco-romana al pari di Apollo e dei Dioscuri Castore e Polluce.
Poi successivamente, la sua preparazione ha assunto significati legati alla tradizione cristiana, simbolo di rinascita e resurrezione pasquale…
Vuoi sapere altre meravigliose storie su questo buonissimo e ricchissimo dolce…oltre alla “mia” ricetta della pastiera? (clicca qui!)
Leucosia
Le spoglie della sirena Leucosia (Leukosia), “la bianca” o “colei dalle bianche membra“, furono trasportate dalla corrente fino al Golfo di Poseidonia (l’attuale Paestum) e precisamente su di un isolotto, la punta estrema di un promontorio nei pressi di Santa Maria di Castellabate, il quale venne battezzato in suo onore: Punta Licosa (a cui sono particolarmente affezionata perché si trova sulla linea di orizzonte che vedo difronte casa mia. Fin da bambina, il suo profilo mi sembrava la testa di un delfino, il mio animale preferito. Un’altra curiosità in tal senso, è che anche lo scoglio più grande delle Sirenuse, il Gallo lungo, ha la forma di un delfino!).
“Sul promontorio Enipeo, scagliata con violenza, Leucosia occuperà per molto tempo lo scoglio col suo nome, dove il rapido Is ed il vicino Lari versano le loro acque“
La memoria della Sirena Leucosia, onorata dalla popolazione locale fin dall’antichità, è testimoniata da una delle quattro porte di Paestum antica, chiamata Porta Serena ed aperta ad Oriente.
Attualmente, durante la stagione estiva, si svolge presso l’isolotto di Punta Licosa una celebrazione musicale dedicata alla sirena suicida, i famosi “Concerti sull’acqua” di Santa Maria di Castellabate.
Ma la storia di Leucosia non finisce qui. Anche lei è soggetta ad altre versioni e racconti nel corso dei millenni.
Una favola simile a quella di Andersen che rese famosa, secoli dopo, la Sirenetta di Copenaghen, racconta che anche la nostra Leucosia fosse una bellissima sirena con la coda di pesce ed abitasse presso uno scoglio. Da lì, ben nascosta tra le onde, tutte le sere Leucosia osservava un uomo – un Principe – guardare il mare e le stelle in esso riflesse, affacciato dalla finestra del suo castello.
La sirena se ne innamorò perdutamente. Non le importava più di nulla. Divenne la sua ossessione! Ormai l’unica cosa che gli interessava era il suo amato, e non vedeva l’ora di ammirarlo furtiva e sognare il giorno in cui il suo incontro d’amore con lui potesse avverarsi.
Passarono gli anni e la speranza incominciava a sbiadire finché, un giorno, i suoi sogni si infransero del tutto nel vedere il suo Principe felice e sorridente, con una fotografia in mano che lo distraeva dal solito panorama che a lui piaceva guardare: si capiva, era innamorato… Aveva trovato l’amore… e non era lei!
Leucosia diede sfogo a tutta la sua pazzia: pianse disperatamente, si fece male, iniziò a urlare, a graffiarsi e a strapparsi i capelli. Il sangue scorreva copioso e tingeva le acque del mare di uno scarlatto che faceva contrasto con la sua carnagione candida.
Quando non ebbe più forze, si trascinò sull’isolotto lì vicino, staccò un pezzo di roccia dagli scogli e se lo conficcò nel petto. Quella piccola isola sarebbe poi stata chiamata Licosa, in sua memoria.
Il giorno dopo, il principe passeggiava sulla spiaggia dell’isola, finché non vide il corpo di Leucosia sporgere dagli scogli sotto cui era intrappolata la sua coda, che quindi non era visibile. Si avvicinò a lei e la guardò meravigliato e, allo stesso tempo, malinconico: “Che peccato, una così bella fanciulla … magari, in un’altra vita – disse, chiudendole gli occhi vitrei – ci saremmo potuti innamorare”.
Lige(i)a
La sirena Ligea (o Ligeia) era più giovane delle sue sorelle Partenope e Leucosia, e veniva chiamata “la melodiosa“ o “dal suono penetrante” perché il suo canto era il più soave mai sentito sulla terra, e tutti coloro che avevano avuto modo di ascoltarla ne erano affascinati.
Si narra che Ligea, dopo l’onta subita da Ulisse, vedendo Partenope lanciarsi giù da una rupe e Leucosia scomparire nelle profondità del mare, ormai sola e disperata, si tuffò a sua volta in una terribile tempesta marina, lasciandosi trasportare dalle onde, che la portarono alla deriva molto più lontano delle sorelle, fino in Calabria, nel Golfo di Sant’Eufemia (un’altra tesi, sostiene che anche il corpo della sirena Ligea, sarebbe rimasto nelle vicinanze delle Sirenuse e precisamente, le onde avrebbero spinto il corpo sulle rocce di Punta Campanella ed è proprio per questo motivo che si sarebbe chiamata anche Punta Ligera).
Ma a confutare la prima tesi c’è proprio il racconto di Apollonio Rodio, vissuto nel III secolo a. C., che in “Le Argonautiche” descrive il triste destino delle tre Sirene.
Di Ligea scrive:
“Tu, viandante, se vorrai conoscere il percorso della sirena Ligea che sarà spinta dai flutti a Terina…I Faleri la seppelliranno nelle arene del lido contiguo ai vortici dell’Ocinaro dove era anche il sepolcro del Marte dalle corna di bue, dovrai attraversare la Via Traiana, raggiungere Terina dal Golfo Terineo o Lametino…”.
Qui, trovata da alcuni marinai sulla riva dell’Okinaros, l’attuale fiume Bagni, fu sepolta sulla piccola isola ghiaiosa, ed eletta come loro protettrice. In suo onore fu eretto un tempio votivo e, da allora, fu grande la venerazione per la sfortunata sirena, a cui dedicarono un particolare culto religioso.
La sua immagine è raffigurata sulle bellissime monete ritrovate tra i reperti archeologici degli scavi dell’antica città di Terina, attualmente vicino Sant’Eufemia Vetere di Lamezia Terme. Ella è raffigurata con un busto di donna, le braccia nude e il corpo di uccello con coda e ampie ali. Seduta su un cippo mentre gioca con una palla, oppure mentre riempie un’anfora con l’acqua che sgorga dalla bocca di un leone, quindi unita in modo indissolubile al territorio.
Ligea compare spesso anche in statue isolate e in rilievi a ornamento di tombe, in genere mentre suona la cetra, oppure in vasi dipinti, mosaici, pitture e sarcofagi romani.
La sirena tanto venerata avrebbe rappresentato la personificazione stessa della città di Terina e, secondo la leggenda, il nume d’acqua dalla fronte cornuta del fiume Ocinaro, con le sue acque avrebbe bagnato il suo sepolcro, tergendo il busto dell’alata fanciulla marina.