Storie di donne e sfogliatelle… tra clausura e mondanità!
Scrivere della Sfogliatella Santa Rosa (o la Santarosa) e dell’omonimo monastero di clausura in cui è nata, mi viene sentimentalmente spontaneo perché, in primis, il Convento di Santa Rosa è situato nel luogo in cui vivo, Conca dei Marini. Questo si erge fiero e maestoso su di un’altura rocciosa all’imbocco del paese, quasi come fosse una fortezza; la sua sagoma nitida ed austera, si scorge anche da molto lontano.
La seconda motivazione è ancora più personale, in quanto in onore di questo delizioso dolce, simbolo della pasticceria campana, ho ideato un concorso gastronomico nazionale, il Santarosa Pastry Cup, che dal 2012, ogni anno, vede sfidarsi i maggiori esponenti dell’“arte bianca” sull’interpretazione della Santarosa, con un tema ispiratore sempre diverso ad ogni edizione…
La storia antichissima e leggendaria della sfogliatella, la scriverò dettagliatamente più avanti in questo articolo.
Adesso invece mi preme evidenziare una curiosità del monastero di Santa Rosa che si collega perfettamente al leit-motiv del mio blog, ovvero il suo legame imprescindibile con grandi figure femminili, dalle origini fino ad oggi.
E’ stata una donna, infatti, a volerlo edificare, ed attualmente è una donna ad esserne la proprietaria ed a farlo diventare ciò che è adesso, un Hotel&Spa di lusso premiato come il migliore d’Europa, ed uno dei primi al mondo.
Nel mezzo, oltre trecento anni di storia del monastero, con l’eco misteriosa ed affascinante di altre storie di donne, e di un dolce tra i più iconici d’Italia!
Le origini… Suor Maria Rosa Pandolfo
E’ dovuta al volere di una giovane donna, Vittoria Pandolfo, la fondazione del Monastero di Santa Rosa, convento di monache di clausura. La sua nobile e ricca famiglia si stanziò a Conca dei Marini nel XV secolo.
In un libro custodito nell’archivio della parrocchia di San Pancrazio Martire scritto da Natale Pandolfo, si cita come capostipite della famiglia, Pompeo, un giovane capitano proveniente da Milano che, attratto dal culto di Sant’Andrea apostolo ad Amalfi, si stabilì nella vicinissima Conca. Lo storico amalfitano Matteo Camera, narra invece, che fu un certo Daniele a trasferirvisi da Pontone di Scala nel XVI secolo.
La famiglia vantava un grande potere politico ed economico. Avevano molti possedimenti, abitavano in un grande palazzo con torre merlata ed una cappella privata a breve distanza (oggi chiesetta dell’Immacolata nella piazza principale di Conca), e possedevano molti patronati nelle altre chiese del paese.
Francesco, il padre di Vittoria, che ricavava guadagni dal fiorente commercio marittimo, sposatosi con la marchesa Giovanna Gagliano ebbe ben otto figli: Natale, il più grande dei fratelli, con il diritto di maggiorasco, divenne l’erede degli affari di famiglia dopo la morte del padre, avvenuta nel 1659; Gennaro e Andrea furono dottori in legge; Pietro, Antonio e Vincenzo, tutti ordinati sacerdoti; poi Filippo (non ci sono notizie sul suo conto), ed infine Vittoria, l’unica donna, la quale si consacrò anch’ella, il 25 dicembre del 1676, col nome di suor Maria Rosa di Gesù.
La famiglia Pandolfo, che divenne protagonista della vita del paese, si assunse l’onere di riparare la chiesa abbandonata di Santa Maria di Grado, risalente al IX secolo. La chiesa, situata su un altipiano, era stata gravemente distrutta da un cataclisma e ricostruita nel secolo successivo. E’ documentata come chiesa parrocchiale a partire dal 1370.
Nel 1539, l’arcivescovo di Amalfi, Ferdinando D’Anna, prendendo atto che questa chiesa era povera di rendite, malridotta e cadente, e con poche anime a causa della peste del 1528, le toglieva il titolo di chiesa parrocchiale e la cedeva in jus patronato perpetuo, all’Università di Conca.
Il Comune, a sua volta, nel 1680, la diede in concessione con tutte le pertinenze ai Pandolfo, i quali non si limitarono a ristrutturare la chiesa, ma fortemente sollecitati dalla ferma volontà di Vittoria, vi edificarono accanto un monastero di monache di clausura.
Il 17 giugno del 1680 fu benedetta la prima pietra, ed appena l’anno successivo, nel 1681, Suor Maria Rosa di Gesù insieme ad altre quattro vergini avviò il neo conservatorio di clausura di terziare domenicane, ispirandosi e dedicandolo ad una giovanissima suora peruviana, Isabel Flores che appena dieci anni prima, nel 1671, era stata canonizzata come Santa Rosa da Lima.
Queste poche notizie tramandate fino ad oggi fanno pensare che la giovane Vittoria dovesse essere una donna volitiva, forte e carismatica, per essere riuscita ad imporsi o far valere la sua volontà sul resto della sua famiglia, composta, tranne che per la madre, da soli uomini.
Considerando la condizione femminile dell’epoca in cui è vissuta, mi sembra assai difficile.
Le donne del Seicento avevano pochissima libertà e ruoli limitati e ben definiti, in senso trasversale rispetto a tutte le classi sociali.
Le donne, aristocratiche o borghesi che fossero, avevano come unica prospettiva quella di diventare buone mogli: erano istruite solitamente da un precettore per imparare a leggere e scrivere, e poco altro.
Fin da piccole venivano avviate agli atti di pietà e venivano istruite sulla religione e sul culto.
Quindi spessissimo, in giovane età, venivano rinchiuse in qualche convento di clausura come novizie, dove imparavano le arti “obbligatorie” per le donne del tempo, ovvero filare e tessere, cucinare e governare la casa.
Poi, solo quando conveniva alla famiglia, potevano uscire per convolare a nozze attraverso un matrimonio combinato.
Capitava che alcune fanciulle, pur di non sposarsi con un uomo impostogli dalla famiglia, preferivano di loro spontanea volontà entrare in convento. Alcune, invece, con una vita meno agiata, lo facevano per procurarsi cibo, protezione ed una casa, o per istruirsi.
Molti nobili vedevano però il monastero come un futuro sicuro ed agiato per le figlie o sorelle nubili ed esercitavano così una spinta verso quel tipo di vita, da una parte meno libera, ma dall’altra ricca di privilegi ed agi, specialmente quando riuscivano a diventare Badesse: le reggenti del monastero stesso, che avevano, al pari degli Abati, un forte potere sia economico che politico e sicuramente più libertà, rispetto ad una donna nobile destinata al matrimonio.
A quel tempo, infatti, molto spesso i monasteri erano dei veri e propri centri di potere, dotati di notevoli patrimoni fondiari, grazie alle doti ed alle donazioni che i ricchi signori elargivano per le loro figlie o sorelle che entravano in convento, segno esso stesso di ricchezza e nobiltà.
Per questo fatto, le donne provenienti da una famiglia nobile molto elevata accettavano quasi sempre la vita monacale, anche se spesso non riuscivano a vivere appieno il dovere di obbedienza incondizionata di una vita consacrata al Signore, non scaturita da una reale vocazione (un esempio in letteratura, è la famosa monaca di Monza, descritta dal Manzoni nei “Promessi Sposi”).
Verosimilmente, la storia di suor Maria Rosa di Gesù, badessa del Monastero di Santa Rosa, non si discosta da queste usanze del tempo. È molto probabile che si sia fatta suora per una reale vocazione, ma di sicuro godeva di una posizione molto privilegiata come badessa del convento, per giunta voluto e finanziato dalla sua stessa famiglia.
Il monastero di Santa Rosa, inoltre, divenne tra il XVIII e XIX secolo, uno dei principali istituti religiosi dell’Italia Meridionale, molto apprezzato e conosciuto. Possedeva grandi proprietà sia nel territorio limitrofo – tra cui il suolo che incorpora la Grotta dello Smeraldo (ancora però non scoperta) – che in zone lontane, fra le quali la fonte termale di Capasso, nel comune di Contursi.
Quasi tutte le giovani suore provenivano da famiglie nobili napoletane o da tutto il Regno di Napoli e, grazie alle doti e alle donazioni elargite dalle loro famiglie nobili e benestanti, contribuirono fortemente alla ricchezza ed alla fama del monastero stesso.
Un esempio sono le preziose opere che hanno arricchito la chiesa del convento:
Di pregevole manifattura sono i quattro altari in legno policromo delle cappelle laterali – unico esempio in tutta la provincia di Salerno – e la grata sempre in legno della sovrastante cantoria e delle gelosie (che in questi ultimi anni sono stati oggetto di un importante lavoro di restauro conservativo). Purtroppo è andato perduto l’altare maggiore in legno dorato del presbiterio, sostituito con un altro in marmo nel 1858.
Si è scoperto da poco, in occasione del restauro (attualmente ancora in corso) del quadro dell’altare maggiore, dipinto su tavola, che la Madonna raffigurata al centro sia molto più antica del quadro stesso – presumibilmente del 1300 – di notevole interesse storico-artistico.
In questa chiesa è conservato anche il capo di S.Barnaba Apostolo, tra i primi fedeli di Gerusalemme.
Fu lui ad esortare S.Paolo alla missione evangelica. Questa reliquia fu donata alle suore del monastero dal vescovo di Pozzuoli, Girolamo Dandolfi, originario di Conca.
Dono prezioso considerando che, probabilmente, è la reliquia più importante della provincia dopo quelle di S.Andrea ad Amalfi e di S.Matteo a Salerno.
Un quesito che mi sono posta, è per quale motivo, a Conca dei Marini, S.Barbaba non viene né festeggiato né tantomeno ricordato. La sua ricorrenza si celebra l’11 giugno, e forse qui, risiede la spiegazione del mancato festeggiamento. Il Santo patrono di Conca è S.Antonio da Padova, molto venerato fin dal 1694 (anche dai fedeli dei paesi limitrofi) e si festeggia solennemente, il 13 di giugno con una grande processione, ma anche con una preparazione liturgica che dura 13 giorni, detta appunto Tredicina. Quindi, il “povero” S.Barnaba si trova stretto in mezzo alle celebrazioni del Santo patrono ed è stato, per così dire, dimenticato!
Il monastero di Santa Rosa fu molto importante anche per gli abitanti del paese, in quanto le Suore aiutarono in svariati modi la popolazione locale. L’opera più preziosa fu sicuramente portare l’acqua in paese.
Fu scavato un canale che dal vicino Monte Vocito, nei pressi di Lone di Amalfi, portava acqua al convento, e da lì fino in Piazza Olmo, dove venne costruita una Fontana. Gli abitanti di Conca avevano finalmente in paese, un posto dove attingere acqua corrente e non più solo utilizzare quella delle cisterne di acqua piovana.
Una lapide commemorativa ricorda ancora oggi questo nobile gesto.
Inoltre le suore misero a disposizione della comunità le proprie conoscenze farmaceutiche, preparando medicinali e rimedi per le malattie più comuni. Il monastero, infatti, era rinomato per la sua spezieria oltre che per la cucina…
Ci sono pochissime informazioni circa la vita claustrale delle tantissime giovani suore avvicendatasi nel monastero, se non il nome e poco altro, trascritto su qualche registro antico del convento pervenuto fino ai giorni nostri.
Ovviamente, i tanti secoli trascorsi ed i vari passaggi di mano del monastero, oltre ad una mancante testimonianza scritta, hanno reso pressoché impossibile una fedele e rigorosa ricostruzione storica degli avvenimenti più importanti, avvenuti in questo convento di clausura.
Ma qualche storia è trapelata, avvolta nelle pieghe del tempo e nei misteri antichi tramandati oralmente...
Alcune di queste le ha raccontate timidamente Pierluigi Caterina, il penultimo proprietario del monastero (divenuto poi albergo). Era un uomo taciturno e schivo, di profonda cultura, ma che si era lasciato andare, negli ultimi anni della sua vita, ad una vita solitaria ed essenziale, nel suo monastero adibito quasi ad eremo.
Lui affermava che fra le novizie del convento c’era stata anche una giovinetta nobile di particolare bellezza, amata perdutamente dal filosofo napoletano Giambattista Vico, il quale, struggente d’amore, si accontentava di mirare da molto lontano la sagoma del monastero dove era rinchiusa la sua amata. Egli, infatti, visse per diversi anni in un paesino del Cilento, situato sulla costa opposta a quella amalfitana. A lei dedicò un sonetto e varie lettere d’amore.
Questa storia è accennata in molti articoli dedicati al monastero di Santa Rosa e la giovane ragazza è identificata come la marchesina di Villarosa.
Personalmente ho cercato conferme a questa affascinante storia (le ricerche sono ancora in atto) ed effettivamente, c’è qualcosa di veritiero ma anche, diverse inesattezze:
E’ vero che Giambattista Vico visse circa nove anni a Vatolla, un paesino del Cilento, perché fu assunto come istitutore dei figli del marchese Domenico Rocca: Francesco, Saverio, Carloantonio e Giulia. Della giovane figlia del marchese, il filosofo napoletano si innamorò perdutamente ma non fu corrisposto. A lei dedicò, nel 1693, la canzone “Affetti di un disperato” d’ispirazione lucreziana. La giovane Giulia, com’era in uso fare a quei tempi, fu rinchiusa in convento per un breve periodo, per poi andare in sposa, nel 1695, ad un nobile scelto dalla famiglia: Giulio Cesare Mezzacane, Principe di Omignano.
Il Vico per l’occasione, scrisse un epitalamio (un canto nuziale destinato a celebrare in versi un matrimonio): “Per le Nozze di D. Giulio Cesare Mezzacane, Principe di Omignano, e D. Giulia Rocca dé marchesi di Vatolla“.
Chissà se era ancora innamorato della marchesina, ma sta di fatto che, per alcuni studiosi, fu proprio la passione non corrisposta per la giovane fanciulla, il motivo del suo trasferimento definitivo a Napoli.
Quindi, la storia raccontata da Pierluigi Caterina, potrebbe essere vera, se la giovanissima marchesina Giulia Rocca, avesse vissuto, anche per un breve periodo, nel monastero di Santa Rosa. Sarebbe, interessante, trovare delle tracce o testimonianze storiche in tal senso.
Inoltre, credo che verosimilmente, il nome della giovane donna, si sia tramutato in “marchesina di Villarosa“, perché confuso con il nome del marchese di Villarosa, un nobile napoletano che nel 1818, scrisse un libro dedicato ad alcuni scritti del famoso filosofo napoletano: “Opuscoli di Giovanni Battista Vico” raccolti e pubblicati da Carlantonio De Rosa, marchese di Villarosa“.
Anni fa, venni a conoscenza da terze persone, di un altro aneddoto, raccontato da Pierluigi Caterina, mi rimase a lungo in mente, nonostante pensai, fosse una storia totalmente fantastica, più che una vicenda con qualche fondo di verità. Ma alla fine, poco importava la sua origine, in quanto evidenziava perfettamente un aspetto della vita di tante giovani fanciulle, rinchiuse contro la loro reale volontà, tra le mura claustrali di un convento.
Inoltre, nel 2015, questa storia mi diede lo spunto, per l’ideazione del tema, della quarta edizione del concorso gastronomico nazionale, Santarosa Pastry Cup: “La Santarosa…in rosa!”:
“Questa storia narra che alle suore di clausura che abitavano il monastero, fosse severamente vietato avere contatti con il mondo esterno, ma il caso volle che proprio il muro in prossimità della cucina del convento, presentasse una piccola ma profonda fenditura che permise ad una monaca cuciniera, di istaurare un rapporto umano, forse tramutatosi in un amore platonico, con un contadino che lavorava la terra del convento.
Questa crepa, veniva coperta e nascosta dalla suora con un’immagine sacra, e solo nel momento opportuno, senza essere vista, accortamente rimuoveva, ogni qualvolta sapeva di scorgere il suo contadino, al quale ogni tanto donava, attraverso essa, un pezzo di pane, preziosissimo agli occhi ed alla pancia dell’uomo. Un giorno, però, la suora invece di passare il solito cibo, donò al suo contadino, un pezzo del nuovo dolce che lei stessa aveva inventato. Il giorno dopo, riposta nella fenditura, la monaca trovò una bellissima rosa… Che sia proprio questo episodio ad aver dato il nome alla Sfogliatella Santarosa?“
Alcune testimonianze dirette o riportate per “sentito dire” dicono che il monastero anche quando era già divenuto un albergo ospitasse, insieme ai tanti vacanzieri, altri “esseri” che di tanto in tanto facevano sentire la loro presenza. Una porta aperta senza il minimo alito di vento, una tovaglia caduta a terra, il rumore di una maniglia, la percezione di un manto grigio di monaca intravisto in fondo al corridoio, il fruscio di passi lenti…
La Signora Marcucci ne era a conoscenza sin da piccola, quindi, bonariamente e un pò divertita, avvertiva a chi chiedesse spiegazioni per alcune “stranezze”, di non averne paura o timore perché erano presenze benevole ed innocue.
Questi strani episodi, non si sono più verificati, da quando il Papa proclamò solennemente, una preghiera per la liberazione delle anime perse.
Il monastero diventa l’Albergo Santa Rosa
A seguito delle leggi eversive, in particolare di quella del 1866, la casa religiosa fu soppressa anche se le monache che vi abitavano vi rimasero fino alla loro morte. L’ultima, Suor Clotilde, morì nel 1912 e lasciò tutti i suoi beni al Comune.
Seguirono dodici anni di abbandono ed incuria amministrativa, finché un giorno, l’albergatore romano Massimiliano Marcucci di Publio, che insieme con il fratello ed un altro socio gestiva in Sicilia sei alberghi di lusso e l’Hotel de la Ville a Roma, scorgendo la sagoma del monastero Santa Rosa da Punta S. Lazzaro di Agerola, ne intuì il valore storico ed il pregio architettonico (anche perché gli ricordava la posizione del suo San Domenico Palace Hotel a Taormina, meta preferita da nobili e regnanti, e da Guglielmo Marconi, che vi alloggiava dopo essere sbarcato dalla sua nave «Elettra»).
Così, nel 1924, l’immobile dell’ex convento fu acquistato e ristrutturato come albergo, ma preservandone l’aspetto originale. Ben presto, l’Albergo Santa Rosa divenne rinomato per la sua quiete, il panorama e l’ospitalità.
La moglie del nuovo proprietario, una giovane russa di famiglia principesca, di notevole bellezza e raffinatezza, pur mantenendo il rigore e la semplicità tipica della vita monastica, ornamentò le sale dell’ex convento con le sue due grandi passioni: i tappeti persiani e le ceramiche artistiche, oggetti preziosissimi e rari, insieme ad una biblioteca completa di libri dedicati a queste arti.
Gli ambienti comuni e di rappresentanza sfoggiavano una miniera di tesori d’antiquariato, ceramiche di Cerreto, Faenza, Albissola e Montelupo, porcellane di Sèvres, merletti e pezzi di pregio provenienti dalla Sicilia, tappeti orientali… ed un oggetto di particolare interesse: una splendida gualdrappa Bokkara-Iomud, uno di quei mantelli ornamentali usati per ricoprire le selle. Era un dono di nozze di una fidanzata caucasica al suo promesso sposo, in osservanza della regola in uso in quei Paesi, secondo cui, «più bella è la sella, più forte è l’amore!»
L’albergo Santa Rosa è stato uno dei 39 Relais Château in Italia.
Una guida americana “A dollar-wise guide to Italy” nel 1969 così lo cita: “A Conca dei Marini vi piacerà l’albergo Santa Rosa insediato in un monastero del Seicento il quale non è stato guastato da rifacimenti volgari in maniera da non turbare la tranquillità spirituale. Infilato nelle nuvole, un po’ appartato da Amalfi, offre una veduta senza respiro della costa sottostante”.
Il depliant dell’albergo aveva come motto:
“In ogni finestra il sole, da ogni finestra il mare!“
Slogan ripreso, in anni recenti, dal Comune di Conca dei Marini.
Negli anni, il fascino antico e la serenità del Santa Rosa ha affascinato migliaia di ospiti, i quali hanno lasciato le loro affezionate e talvolta poetiche impressioni nei vari albo d’oro dell’albergo.
Tra tutti, basti citare un pensiero di Eduardo De Filippo, un entusiasta del Santa Rosa:
“Io ccà me sento monaco,
me sento nato monaco,
vulesse murì monaco”
(“Io qui mi sento monaco,
mi sento nato monaco,
vorrei morire monaco”)
La discrezione del luogo incantò anche Margaret d’Inghilterra, che lo elesse a rifugio segreto per le sue visite in Costiera Amalfitana, ma anche Gianni Agnelli, che era addirittura intenzionato a comprarlo.
I coniugi Marcucci ebbero solo una figlia, la quale sposò un avvocato salernitano, Enrico Caterina, ed insieme a lui continuò la gestione dell’Albergo Santa Rosa. L’avvocato, a quanto si dice, era un uomo colto ed appassionato di storia, in special modo di quella locale. A lui dobbiamo le notizie pervenute fino ad oggi sul monastero Santa Rosa e su alcuni personaggi emblematici del territorio. A contribuito, inoltre, alla creazione di innovative manifestazioni culturali negli anni ’60, come ad esempio, “Amalfi by night“.
Anche loro ebbero solo un figlio, Pierluigi Caterina, laureato in architettura ed anch’egli appassionato di storia e cultura locale, ma poco vocato al settore dell’ospitalità. Dopo la morte del padre, non aveva saputo – o voluto – gestire al meglio l’albergo ed i suoi beni.
Anche la madre che fino agli anni ’80 del secolo scorso, era stata un’ottima “padrona di casa”, grazie al gusto e la raffinatezza nell’accogliere e curare i tanti ospiti affezionati dell’albergo, specialmente francesi e inglesi, non era stata capace di prendere in mano le redini degli affari di famiglia. Probabilmente, era cresciuta troppo nella “bambagia” e non possedeva il piglio di una donna imprenditrice.
Il figlio era forse come lei, schiacciato anche dal peso della responsabilità e dei “doveri” che si sentiva sulle spalle.
Inoltre non si era sposato e non aveva eredi, si dice che proprio una forte delusione d’amore sia stata la causa scatenante del suo lasciarsi andare, specialmente dopo la morte della madre, trascinando infine con sé, in un inevitabile declino, anche il suo amato, ormai chiuso e solitario Santa Rosa.
Desidero ora condividere con Voi, un fatto privato, una confidenza che mi fece un giorno di tanti anni fa, mia madre, dopo un incontro avuto per puro caso con Pierluigi Caterina proprio davanti al monastero Santa Rosa, mentre aspettavamo un pullman di linea.
Quando la riconobbe, la chiamò calorosamente: “Mariaaa, come stai??“, “…ma quanto tempo è passato!!“… e mentre si scambiavano quattro chiacchiere, io pensavo come mai si conoscessero così bene come sembrava… Poi, nel momento dei saluti, lui disse: “Ah Maria, chissà come sarebbe andata, se noi…“
Appena rimasta sola con mia madre, subito la interrogai su quella strana frase finale detta dal Sig. Pierluigi!
Inizialmente lei mi ricordò che il fratello, mio zio Antonio, era stato, nel decennio ’60/’70, il cuoco (non si chiamavano ancora “chef”…) ed anche il factotum di questo albergo, quindi con un rapporto molto stretto con i proprietari.
Un giorno mia madre, che aveva (per motivi troppo lunghi da spiegare…) un rapporto molto conflittuale con il padre, dopo l’ennesima forte litigata, trovò la forza, in un impeto di grande ribellione ed autodeterminazione, di scappare e di rifugiarsi proprio presso l’albergo Santa Rosa.
Chiese ospitalità alla proprietaria per un breve periodo, sperando forse in cuor suo di poter trovare una sistemazione anche lavorativa, in modo da essere economicamente indipendente.
Rimase al Santa Rosa per una settimana o forse due (non ricordo bene), ma poi la Signora la persuase a tornare a casa dai genitori, per continuare ad aiutarli. La convinse definitivamente quando le parlò di mia nonna Anna, tanto triste e preoccupata per la sua assenza da casa.
Mia mamma a quel punto capitolò. Era molto legata a sua madre e sapeva quanto soffrisse e quanto avesse bisogno di lei… Quindi non pensò più al suo futuro, ad una prospettiva di vita più libera e felice, e come tante monache che avevano vissuto in quel luogo, accettò che il suo destino fosse determinato da altri!
Alla fine del racconto, mia madre mi confessò che la vera motivazione per cui la Signora la mandò via era il timore e la forte preoccupazione che tra lei e suo figlio potesse nascere qualcosa. Infatti si era accorta della simpatia che nutrivano vicendevolmente, ed era fortemente decisa a stroncare tutto sul nascere! Non poteva assolutamente permettere che suo figlio, il rampollo di famiglia, l’erede unico, potesse anche solo pensare di relazionarsi con una donna non del suo stesso rango!
A quel punto chiesi a mia madre come avesse potuto farsi piacere un uomo come il sig. Pierluigi, sciatto, grosso e taciturno. Mi rispose che quando era giovane era un bel ragazzo, molto fine, colto e gentile, e che il suo decadimento come persona e come albergatore dipendesse, anche nel suo caso, dall’aver accettato passivamente una vita già prestabilita, senza seguire le vere inclinazioni personali ed i propri desideri, ma rimanendo evidentemente intrappolato in un ruolo non suo, che ha recitato fino alla fine dei suoi giorni.
Quando era in vita, non ha mai voluto vendere il suo albergo, ormai chiuso da diverso tempo. Di offerte allettanti, a suo dire, ne aveva ricevute tante. Avrebbe potuto alienare l’immobile e fare la vita da nababbo in giro per il mondo. Possedeva anche altre importanti proprietà, come una magnifica casa in Via Veneto a Roma. Negli ultimi anni aveva anche comprato delle piccole proprietà terriere a Conca, apparentemente senza una reale necessità o motivo.
Si crucciava di due cose: i diversi furti che negli ultimi anni aveva subito il monastero Santa Rosa e i suoi lontani parenti di Roma che, secondo lui, aspettavano trepidanti la sua morte per arraffarsi tutto!
Invece, il destino è stato più beffardo!
Dopo la sua morte, infatti, non avendo fatto testamento, il notaio ha trovato un lontano parente di Torino, il quale, ignaro anch’egli di questa parentela, nel momento in cui si è visto improvvisamente destinatario di una tale eredità, non ha esitato un istante a mettere in vendita tutto e portarsi via solo le poche cose di valore che erano rimaste nell’antico monastero.
L’uomo, disinteressato e senza legami affettivi con quel luogo e con le persone che lo avevano tanto amato, ha venduto in breve tempo il vecchio monastero per la cifra di 14 miliardi e mezzo di vecchie lire.
Un’epoca volgeva al termine… e un’altra stava per nascere…
Dall’America con amore… Mrs Bianca Sharma!
Alcune volte anche nei grossi affari finanziari, le scelte sono dettate più dal cuore e dall’istinto che da meri interessi economici. La storia della compravendita del Monastero di Santa Rosa da parte della Signora Bianca Sharma rientra in questi rari casi (e personalmente credo che quasi sempre sono le donne ad agire in questo modo)
Lo ha raccontato essa stessa in diverse interviste in merito: il suo è stato un innamoramento a prima vista!
Ma se Domenico Marcucci, il primo acquirente del monastero che lo trasformò in albergo nel 1924, ne fu fortemente attratto scorgendolo dall’alto, da Punta S. Lazzaro ad Agerola,
Bianca Sharma, invece nel 2000, ne rimase folgorata, ammirandolo dal basso, mentre si trovava con amici su uno yacht, in crociera nel mare della Costiera amalfitana.
Si può dire che il monastero da qualsiasi punto lo si ammiri, suscita stupore e meraviglia!
La Signora Sharma era in vacanza in Italia, proveniente dagli Stati Uniti. Era rimasta vedova del marito un importante manager dell’informatica che con le sue intuizioni ha rivoluzionato il mondo del web e della sicurezza tecnologica.
Imprenditrice essa stessa, appassionata collezionista d’arte ed amante dei viaggi, certamente non aveva nessuna esperienza nel settore alberghiero, prima di avventurarsi in questa nuova impresa.
Era solo spinta dal forte desiderio di far rinascere quel luogo, sottraendolo al degrado e al decadimento nei quali versava e trasformarlo nuovamente in un albergo di lusso, preservandone lo charme e valorizzando le sue tante peculiarità.
Credo che non immaginasse al momento dell’acquisto che per realizzare Il suo sogno, ci sarebbero voluti più di 10 anni!
I motivi sono stati certamente tanti e la sua visione purtroppo, è stata a lungo frustata da innumerevoli problemi, principalmente legati alla contorta e spesso incomprensibile burocrazia italiana ed alla necessaria tutela di un bene di interesse storico, che hanno rallentato di molto la realizzazione del progetto di riqualificazione del monastero, a tal punto che Mrs. Sharma stava ad un certo punto, decidendo di mollare tutto. In una lunga lettera pubblica indirizzata alle autorità e politici del tempo, scrive: “Saluto tutti e devo con amarezza ammettere per esperienza personale, nel vostro magnifico ma difficile paese, fare il turista piuttosto che l’imprenditore…”
Ma i grandi sogni quando sono accompagnati da una forte tenacia, alla fine si realizzano!
Il Monastero Santa Rosa è oggi un esclusivo Hotel & Spa fra i più raffinati al mondo, in cui lusso e semplicità convivono armoniosamente, unico per la sua posizione, da cui si gode uno dei più incredibili panorami su Amalfi e la sua Costiera.
A pochi anni dalla sua apertura avvenuta nel 2012, è stato insignito da Condè Nast come I° Hotel in Italia ed al suo ristorante “Il Refettorio” è stata conferita la prestigiosa Stella Michelin.
La storia leggendaria della “Sfogliatella Santa Rosa”
Il monastero di Santa Rosa è conosciuto per essere il luogo dove è nata la sfogliatella Santa Rosa (o la “Santarosa“), progenitrice della più famosa sfogliatella napoletana.
La sua è una storia secolare, di oltre trecento anni ed è molto difficile, se non impossibile, trovare prove documentate e scritte, della sua origine.
Tutto è avvolto nella leggenda, nella storia tramandata oralmente ma che, sicuramente, si basa su di un fondo di verità.
In Passato, pochissimi scrivevano di cucina e tradizioni popolari, specialmente quando questi venivano custoditi tra le invalicabili mura claustrali.
Alcuni napoletani “ortodossi” contestano, i natali “fuori Napoli” della sfogliatella, essendo un simbolo indiscusso della città partenopea. Identificano come luogo originario (come per il resto, anche per la Pastiera) un convento del centro storico (quasi sempre quello di S.Gregorio Armeno).
Altre volte, si citano altri conventi, addirittura in un’altra regione, oppure che la sfogliatella era già stata inventata…
La sola cosa certa, in tutto questo teorizzare sull’origine di questo dolce, sono le monache di clausura e non poteva essere altrimenti!
I Conventi, per secoli sono stati i luoghi dove si è custodito e tramandato il sapere: nella cultura, nelle arti, nei mestieri, come nella gastronomia. Erano, molto spesso, centri con grandi risorse economiche e non mancava, ogni “bendidio”.
Come ho scritto nel paragrafo precedente, il monastero di Santa Rosa è stato, per diversi secoli, un conservatorio molto importante e rinomato.
Da tutto il Regno di Napoli, sono giunte giovani fanciulle, spesso nobili, per consacrare la loro vita a Dio o per vivere per un periodo della loro vita: il noviziato. Prima dei voti perpetui, la famiglia poteva decidere in un loro matrimonio combinato, oppure, di trasferirle in un altro convento.
Questo per sottolineare il forte legame che c’è stato tra il monastero di Santa Rosa e la città di Napoli, con molte delle sue famiglie nobili. Alle fanciulle rinchiuse nei conventi, veniva insegnato a cucinare ed a preparare dolci, proprio per offrirli ai parenti in visita. Questo sicuramente, favoriva la lenta ma costante diffusione dei piatti conventuali, prima sulle tavole nobiliari e poi man mano tra il popolo.
La storia antica della sfogliatella Santa Rosa, ci racconta proprio questo:
“La Sfogliatella S. Rosa, uno degli esempi più conosciuti e sublimi della rinomata pasticceria partenopea è un dolce ricco di tradizione che custodisce al suo interno i segreti di una storia tanto lontana quanto magica…
Tra una preghiera e l’altra le monache dedicavano il loro tempo anche in cucina. Essa veniva amministrata in un regime di stretta autarchia, tutto era prodotto in loco ed il menù, tranne che, ovviamente, per le monache anziane, era uguale per tutte. La tradizione locale tramanda che come spesso accade per le invenzioni più riuscite, la creazione di questo dolce avvenne per puro caso, infatti, in un giorno dedicato a fare il pane, la monaca cuoca, bravissima a fare dolci, si trova in avanzo della farina di semola cotta nel latte, buttare si sa è peccato, così pensa bene di aggiungerci alcuni ingredienti che abbondano in dispensa, prodotti nel loro fruttuoso giardino, pieno di alberi da frutto e di una vigna, dalla quale ottengono un buonissimo vino.
Quindi, aggiunge della frutta secca, del liquore al limone (all’epoca non era ancora diventato il famoso “Limoncello”) e dello zucchero, poi, arricchisce l’impasto del pane con un po’ di strutto e vino bianco, per trasformare la classica pasta in una frolla dolce, ne ricava due sfoglie dove mette all’interno il ripieno precedentemente preparato, crea una pasta a forma di cappuccio di monaca e la cuoce nel forno a legna. La bontà del dolce fu tale che la Madre Superiora rimanendo estasiata dal sapore e dall’odore del nuovo dolce, ne fiutò anche l’affare convincendosi che poteva far del bene sia ai contadini della zona, che alle casse del convento. Senza alcun pericolo per la rigorosa clausura, il dolce veniva messo sulla classica ruota in cambio di qualche moneta.
A questo dolce venne dato il nome della Santa a cui era dedicato il convento e la tradizione tramanda che il giorno della festa di S.Rosa, all’epoca il 30 di agosto, il dolce fosse donato a tutti i cittadini di Conca dei Marini. Nel tempo, la sfogliatella si arricchisce di nuovi ingredienti come: la ricotta, le amarene sciroppate, la crema pasticciera… Per più di un secolo, tuttavia, la ricetta della sfogliatella Santa Rosa rimase gelosamente custodita entro le mura del monastero di Conca dei Marini. Fu solo nei primi anni del XIX secolo che un oste napoletano, Pasquale Pintauro, titolare di un’ osteria a via Toledo, di fronte Santa Brigida, riuscì ad ottenere (forse da una zia monaca) la ricetta originale della Santarosa.
Pintauro ebbe un’illuminazone commerciale, da oste divenne pasticciere e la sua osteria si convertì in un laboratorio dolciario, poi, per vendere più facilmente il dolce lo adeguò ai gusti del tempo, fece una leggera variazione sul tema, eliminando la crema pasticciera e l’amarena, e sopprimendo la protuberanza superiore a cappuccio di monaca. Era nata la sfogliatella. La sua varietà più famosa, la cosiddetta “riccia”, mantiene da allora la sua forma triangolare, a conchiglia, croccantissima, vagamente rococò composta da strati sottilissimi di pasta sfoglia sovrapposti gli uni agli altri, ripiena di semola, uova, ricotta, canditi, latte e zucchero.
Esiste, infine, anche una terza variante della sfogliatella, quella “frolla”, di forma tondeggiante, realizzata con morbida pasta frolla e con il medesimo ripieno della sfogliatella riccia. Come dicevamo le varietà della sfogliatella sono la “riccia” la “frolla” e la “ Santa Rosa”, quella appunto che in origine veniva guarnita con crema pasticciera e 7 dico sette amarene. Vanno mangiate calde, attenzione quindi a non scottarvi del suo bollente ripieno!